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G.Danieli, All’origine della Sacra Famiglia: Giuseppe sposo e padre


da: AA.VV., San Giuseppe: sposo - padre - educatore, Centro Studi san Giuseppe LEM, Roma, 1996



La famiglia di Giuseppe nacque il giorno in cui egli ottenne dal padre di Maria di poterla avere in sposa. Non conosciamo la data di quel giorno; ma va cercata fra gli anni 9 e 5 prima della nostra èra. Nei vangeli quel giorno non viene raccontato, lo si ricorda come già avvenuto. Dopo l’elenco genealogico di Gesù, che apre il suo vangelo, Matteo incomincia così: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria era sposa promessa a Giuseppe...» (Mt 1,18).

Chiedendo Maria in sposa, Giuseppe sognava di costruirsi una famiglia come tante altre. Ma ad un certo punto nella sua iniziativa si innestò quella di Dio, al progetto umano Dio sovrappose il suo progetto di salvezza, facendo di Giuseppe il capo della Sacra Famiglia.

L’iniziativa di Giuseppe

Quando il fascio di luce del racconto evangelico illumina il personaggio Giuseppe per la prima volta, egli è legato da un vincolo di amore a Maria, sua «sposa promessa» (Mt 1,18). Qualche versione usa qui il termine «fidanzata», più corrente e più esplicito. Ad esempio, la Traduzione Interconfessionale in lingua corrente, che scrive appunto: «Maria era fidanzata a Giuseppe» (Mt 1,18). Ma le costumanze del mondo giudaico di quel tempo, riguardo al matrimonio, erano diverse dalle nostre e «fidanzata» non designa la reale condizione di Maria allora.

In quell’inizio del racconto evangelico, benché non vivessero assieme, Giuseppe e Maria erano piuttosto «sposi» che «fidanzati», per stare al nostro linguaggio. Nel mondo giudaico di allora il cosiddetto «fidanzamento» era un vero impegno legale, e comportava gli effetti giuridici del matrimonio. La «fidanzata» ebrea non viveva sotto lo stesso tetto del fidanzato, ma gli apparteneva come la sposa allo sposo. L’infrazione del vincolo di «fidanzamento» era condannata, a norma di legge, con la stessa pena dell’adulterio, la lapidazione (Dt 22,23-27). A questo riguardo, scrivendo per i non Ebrei, un coetaneo di Gesù (e un po’ più giovane di lui) Filone d’Alessandria osservava: «Per noi il contratto di fidanzamento e la cerimonia nuziale hanno lo stesso valore» (De specialibus legibus III, 72).

Nel celebre quadro dello sposalizio della Vergine, Raffaello rappresenta Giuseppe che, al cospetto del Tempio di Gerusalemme e dinanzi al gruppo dei pretendenti delusi, mette al dito della Vergine l’anello del matrimonio, mentre il sommo sacerdote quasi a vincerne la riluttanza, avvicina la sua mano a quella di Maria. La scena ispirata ai vangeli apocrifi, contiene più d’una inesattezza storica. Nessun sacerdote (e tanto meno il sommo sacerdote) aveva qualche parte nello sposalizio ebraico, rito esclusivamente civile. A quell’epoca l’anello nuziale non era ancora entrato nell’uso degli Ebrei (vi entrò soltanto nel Medio Evo). E la storia delle verga fiorita è frutto di fantasia, ispirata ad un racconto del libro dei Numeri (Nm 17,16-26).

Il «fidanzamento», o meglio lo «sposalizio» di Giuseppe con Maria non si svolse a Gerusalemme, nei cortili del tempio, ma nel paese e nella casa di uno dei due sposi. Era un rito molto semplice, di famiglia. Possiamo farcene un’idea da come il libro di Tobia descrive lo sposalizio di Sara. Suo padre la consegna a Tobia dicendo: «Prendila. Essa ti viene data in sposa secondo la legge e il decreto scritto nel libro di Mosè». Quindi lo stesso padre formula una preghiera d’augurio: «Che il Dio del cielo vi assista con la sua pace». Al termine viene steso un documento scritto, che testimonierà di fronte a tutti la nascita della nuova famiglia (Tb 7,13-14).

In occasione dello sposalizio, il giovane versava al suocero una somma di denaro che a quel tempo, per una vergine, era di circa cinquanta sicli d’argento (570 grammi). Valeva come compenso per la cessazione dei lavori della giovane nella casa paterna, ed era anche un aiuto economico alla stessa per il caso di divorzio o di vedovanza. Secondo alcuni papiri trovati in Egitto nell’isola di Elefantina, benché consegnata al suocero, quella somma era proprietà della sposa. La stessa somma veniva anche registrata nel documento di matrimonio.

Così Giuseppe divenne lo sposo di Maria, che frattanto rimaneva ancora con il padre per circa dodici mesi. Era questa l’usanza. Tra impegno legale con documento scritto e convivenza sotto lo stesso tetto, doveva passare circa un anno. Quell’anno fu per Maria e Giuseppe indimenticabile. Durante quei dodici mesi si compì un evento che cambiò radicalmente i loro progetti e con essi anche la storia del mondo. Durante quei dodici mesi nei programmi di Giuseppe, Dio inserì il proprio programma.

L’intervento di Dio

«Quando venne la pienezza del tempo – scrisse San Paolo – Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare coloro che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5). La donna da cui Dio volle nascesse il proprio Figlio era Maria, da poco tempo sposata a Giuseppe.

Nel vangelo di Luca si narra come lei accolse liberamente e responsabilmente la richiesta dell’Onnipotente: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua parola» (Lc 1,38). L’intervento di Dio era destinato a sconvolgere i progetti di tutti e due gli sposi. Ma, a quanto possiamo comprendere, in quella risposta a Dio Maria non coinvolse Giuseppe. Prese la sua decisione senza consultare, né chiedere sostegno all’uomo che più amava sulla terra, al quale apparteneva, e che da quella decisione sarebbe stato toccato nel più profondo del suo essere. La totale fiducia in Dio e l’inaudito coraggio della giovane, a quel tempo forse di quindici anni o anche meno, raggiungono grandezze sovrumane. Maria camminava sui sentieri di Abramo e saliva alle più alte vette della fede, mentre affidava a Dio il misterioso futuro suo, dello sposo e dell’intera famiglia umana.

Cresciuta al sole della Parola di Dio, la Vergine traeva di là le motivazioni e l’orientamento del suo agire e, pur in mezzo alle ansie, le ragioni della sua pace: «Se anche vado per valle tenebrosa, non temo alcun male, perché Tu sei con me, Signore!» (Sl 23,4). Nelle sue scelte e nelle pene segrete del suo cuore, dovette sostenerla anche il pensiero di Giuseppe, che peraltro l’iniziativa di Dio chiamava ad una prova imprevedibile, dolorosa e difficile.

All’inizio, egli rimase completamente all’oscuro di quella maternità. Il Figlio di Dio era entrato nel mondo come un ospite inatteso e silenzioso. Nessuno degli uomini aveva mai immaginato possibile, prima d’allora, una presenza dell’unico Dio d’Israele come un uomo fra gli altri uomini. Nessun presentimento di un tale prodigio si era percepito nei libri dei profeti, che nei sabati si leggevano alla sinagoga. Nessuno mai aveva parlato di una vergine, divenuta madre nella più assoluta santità, senza l’intervento d’un padre. Una simile ipotesi, semmai qualcuno l’avesse formulata, sarebbe parsa un disonore del figlio: perché la gloria del figlio non derivava dalla madre, ma dal padre e da Abramo in poi, le benedizioni, i diritti, i doveri e le speranze degli Israeliti erano stati trasmessi sempre da padre a figlio.

La Vergine aveva accolto quel bambino nel suo seno obbedendo a una parola dell’Altissimo indirizzata soltanto a lei. Conservò soltanto nel suo cuore quel segreto dall’immenso peso. Ogni giorno che passava, la gravidanza diveniva più palese e la gente della piccola borgata ne traeva motivi di rallegramenti, di chiacchiere, di giudizi. Attese, gioie e speranze si intrecciavano nel cuore della Vergine con preoccupazioni, timori e ansie, nascosti a tutti tranne che a lei e a Giuseppe, mentre era ormai vicina la seconda fase dello sposalizio, quando Maria avrebbe dovuto dare l’addio alla casa paterna.

Per le strade di Nazaret Giuseppe l’incontrò di certo più volte, con sguardi interrogativi. Non conosceva nulla di quel figlio, mentre non esisteva al mondo persona che più di lui avesse bisogno di sapere. Se tutto pareva testimoniare contro la sua sposa, egli però non l’avrebbe mai denunciata. Perché l’amava. E perché non poteva dubitare di lei. Era infatti un uomo «giusto», come scrive San Matteo: «Giuseppe suo sposo, non voleva denunciarla pubblicamente, perché era un uomo giusto» (Mt 1,19). «Giusto», vale a dire pieno di bontà. Che non giudicava, né condannava. Anticipava nella sua condotta l’insegnamento di Gesù: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati» (Lc 6,36-37).

Egli d’altra parte, non avrebbe potuto riconoscere come proprio figlio, erede della gloria, della speranza, dei diritti e dei doveri dei discendenti di Davide, un bambino di cui non conosceva l’origine. Così si andava orientando verso l’abbandono della sposa. Verso il divorzio.

Nasce la Sacra Famiglia

Le formalità del divorzio erano molto semplici e potevano rimanere anche abbastanza riservate. Nell’anno 1961 è stato pubblicato un documento, trovato nelle grotte di Wadi Murabba’at nel deserto di Giuda, e che risale agli inizi del secondo secolo dopo Cristo. Curiosamente riguarda il divorzio fra una sposa di nome Maria e un marito di nome Giuseppe. Firmato da quest’ultimo e da tre testimoni, il documento si apre con la formula di rito: «Io divorzio e ti ripudio di mia volontà, oggi». Segue la dichiarazione che la donna è libera d’ora in poi di sposarsi con chi essa vuole; e infine un regolamento economico il quale comprende, fra l’altro, l’impegno dell’uomo a restituire alla donna la sua dote.

Giuseppe si andava orientando verso questo passo. Non era giunto ad una vera decisione. Stava ancora riflettendo, nella ricerca d’una via d’uscita, quando Dio gli parlò.

Ascoltiamo il racconto di San Matteo: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo sposa promessa a Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva denunciarla pubblicamente, decise di ripudiarla in segreto. Mentre però stava pensando a queste cose; ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa: il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,18-21).

Quella voce di Dio cambiò radicalmente la situazione di Giuseppe, la visione delle cose e le prospettive. Egli passava dal buio alla luce, dall’inquietudine e dall’angoscia alla pace, dalla tristezza alla gioia più piena. Il quadro della sua esistenza si ricomponeva ad un livello assolutamente nuovo e immensamente più elevato. Egli si sentiva partecipe di un progetto divino mai immaginato, con una collaborazione, una responsabilità e una vicinanza all’Onnipotente che non aveva riscontri in nessuna persona del suo mondo, e nemmeno del mondo della Bibbia. Nella giovane che gli apparteneva come sua sposa, l’Onnipotente aveva compiuto un’opera più grande di quella realizzata ai tempi di Mosè, salvando Israele dalla schiavitù dell’Egitto. E il figlio prodigioso costituiva una presenza di Dio fra gli uomini infinitamente più reale e continua delle apparizioni al patriarca Abramo a Mamre, o a Mosè sull’Oreb. E proprio a Giuseppe Dio ora consegnava i suoi beni più preziosi, la Vergine e il Figlio, chiedendogli di vivere per loro, amandoli come sposo e padre.

La risposta di Maria alla voce del cielo era stata all’origine dell’incarnazione del Figlio di Dio. Adesso la risposta di Giuseppe dava origine alla Sacra Famiglia,

Sposo e padre

L’ingresso della sposa nella casa dello sposo costituiva il momento culminante della seconda fase del matrimonio ebraico. Accennano a questo momento le parole dell’Angelo del Signore: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa» (Mt 1,20). «Prendere con te» vuol dire appunto: «Prendere nella tua casa, sotto il tuo tetto». L’angelo gli chiedeva di non passare al divorzio e completare invece quanto mancava ancora al rito del matrimonio.

Per una piccola borgata come Nazaret, la seconda fase delle nozze rappresentava la più grande festa popolare dell’anno, ricca di luci, di cene e canti. Le forme concrete di questa grande festa non ci sono del tutto note, né probabilmente erano sempre uguali. Ma di norma essa aveva inizio nella casa dei genitori della sposa, con una cena che significava augurio, gioia, felicitazioni, ma anche addio. Là si recava lo sposo a incontrare la sposa per condurla, nella notte, alla propria abitazione. Partiva allora un solenne corteo che accompagnava la sposa, vestita dei più splendidi ornamenti e con il volto ricoperto dal velo. Accanto a lei camminavano «in gioia ed esultanza», come dice il Salmo, le sue giovani amiche (Sl 45,15-16), quelle che Gesù nella parabola ricorda col nome di «vergini». Tra acclamazioni festose, esse scortavano la loro amica e recavano torce accese per illuminare la notte (Mt 25,1-13). I giorni di festa proseguivano poi per un’intera settimana, durante la quale il vino abbondava nei banchetti ed era legge l’allegria, che i canti portavano lontano.

Tutto questo il vangelo di San Matteo lo ricorda con parole semplicissime: «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24).

Così la famiglia di Giuseppe raggiungeva la completezza e il suo cuore la pace. Una gratitudine infinita a Dio, un amore e una venerazione unica verso la sposa, un desiderio intensissimo e una tenerezza paterna verso quel Figlio, atteso e così grande, illuminavano ormai di una luce tranquilla l’animo poco prima sconvolto dalle ansie, dall’incertezza e dall’oscurità. La giovane con la quale condivideva ormai tutto nella vita, era luogo del prodigio più alto, mai operato dall’Onnipotente. Quel corpo era un luogo santissimo, più sacro dello stesso tempio che stava in Gerusalemme, cuore della nazione. La famiglia di Giuseppe era gradita a Dio sopra ogni altra persona o casa al mondo. Era veramente «la famiglia santa» dell’umanità.

A quel bambino, secondo l’ordine del cielo, Giuseppe avrebbe dato il nome di Gesù. Familiarmente, nella sua lingua si diceva Jeshu, e significava: «Il Signore è salvezza». L’angelo aveva spiegato in quale senso quel bambino avrebbe salvato Israele, quale salvezza avrebbe portato: «Lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21). Gesù veniva a liberare l’uomo dalle colpe. Era il compimento d’una promessa, consegnata in un Salmo che ci è molto noto e caro, il De profundis: «Israele attenda il Signore, perché presso il Signore è la misericordia e grande presso di lui la redenzione. Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe» (Sl 130,7-8).

La figura paterna data da Dio a Gesù sulla terra

Nella notte dell’agonia al Getsemani, come ricorda San Marco nel suo vangelo, Gesù invocava Dio con la parola Abbà: «E diceva: Abbà, Padre!» (Mc 14,36). Abbà è termine familiare, come per noi «babbo», «papà». Ed esprime tenerezza, confidenza, abbandono, intimità, fiducia: sentimenti che in un figlio nascono soltanto dalla vita vissuta assieme al padre, dall’amore e dall’aiuto tante volte sperimentato. A quanto sappiamo, nessun Ebreo mai, prima o dopo Gesù, ha chiamato Dio con questo nome. Abbà è anche una delle prime parole che Gesù imparò a pronunciare da bambino e che, lungo tutta la vita rivolse, oltre che a Dio, solo a Giuseppe. Lungo tutta la vita, quando pronunciava quel nome Abbà, alla memoria di Gesù si affacciava l’umile volto di Giuseppe, il padre, che tutti conoscevano come il falegname di Nazaret, prima di lui.

Ogni padre ebreo era il responsabile ultimo di ogni scelta della famiglia: così fu anche di Giuseppe. Egli garantiva con la sua presenza la sicurezza della sposa e del figlio, li guidava con la sua autorità, li sosteneva con il lavoro. È per questo che (secondo il vangelo di San Matteo) Dio manda solo a Giuseppe i suoi ordini: quando il bambino perseguitato da Erode, deve essere portato in Egitto, quando ritorna nella Palestina e quando, lasciata la Giudea, va ad abitare a Nazaret, in Galilea.

Il Vangelo di San Luca narra lo smarrimento al Tempio di Gesù dodicenne. Quando i suoi genitori lo ritrovano, è Maria che gli rivolge la domanda: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48). Con infinita delicatezza Maria pone in primo piano l’angoscia dello sposo: «Tuo padre e io», facendoci intuire qualcosa delle ansie condivise sulle tante strade percorse assieme, nella lunga ricerca. Come ogni madre nella famiglia ebrea, Maria condivideva in certa misura con Giuseppe l’autorità sul figlio.

Ma Giuseppe e Maria condivisero soprattutto l’educazione di Gesù, in primo luogo l’educazione alla vita di fede e alla preghiera. La religione ebraica aveva il suo punto di forza nella famiglia, che costituiva un vero nucleo religioso. I riti del sabato e delle diverse festività, soprattutto della Pasqua, si svolgevano in ambito familiare. Particolarmente unita si trovava la famiglia nel pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme, che Giuseppe usava compiere ogni anno: «I suoi genitori si recavano tutti gli anni, per la festa di Pasqua, a Gerusalemme» (Lc 2,41). I pellegrinaggi erano motivo di stringere rapporti più profondi anche con gli altri parenti che vi partecipavano: quelli che erano chiamati «fratelli» ed eran tenuti a darsi reciproco aiuto e protezione in caso di necessità.

Fu Giuseppe ad introdurre il fanciullo al culto della sinagoga, non appena egli poté esservi ammesso; nella sinagoga le donne non potevano entrare. Di Gesù adulto San Luca ricorda ch’egli usava andare alla sinagoga tutti i sabati: «Si recò a Nazaret dove era stato allevato, e com’era sua abitudine in giorno di sabato, entrò nella sinagoga» (Lc 4,16).

Toccava ancora a Giuseppe, come ad ogni altro padre, educare il figlio al lavoro. E poiché egli era un falegname, lo stesso mestiere passò a Gesù, che nei vangeli è chiamato ora «il falegname» (Mc 6,3), ora «il figlio del falegname» (Mt 13,55). In un piccolo centro come Nazaret, in realtà, non poteva esserci più d’una famiglia di falegnami.

Lo sposo dato da Dio alla Semprevergine

L’inimmaginabile evento della maternità verginale era destinato a dar nuovi significati alla presenza di Giuseppe accanto alla sua sposa. In Lei Dio aveva operato grandi cose e il tetto sotto cui dimoravano era divenuto un luogo più sacro della stessa dimora divina nel tempio. Per conoscere il cammino da seguire, una luce benefica veniva agli sposi dalla Parola di Dio.

Si raccontava nel libro della Genesi come Giacobbe, in viaggio verso la casa dello zio materno Labano, si addormentò una sera in un luogo sconosciuto e in sogno vide una scala misteriosa, poggiata sulla terra e con la cima che raggiungeva il cielo. Su di essa gli angeli di Dio salivano e scendevano. Dall’altezza del cielo, il Signore Onnipotente parlò a Giacobbe per dirgli che nella sua discendenza sarebbero state benedette tutte le stirpi della terra. E soggiunse: «Ecco io sono con te e ti custodirò dovunque tu vada». Appena svegliato dal sonno, Giacobbe fu preso da paura ed esclamò: «Quanto è terribile questo luogo! veramente questa è la casa di Dio e la porta del cielo». Drizzò una pietra sacra, consacrandola con olio e quel luogo prese il nome di Betel, cioè Casa di Dio (Gn 28,10-19). A Giacobbe era bastata dunque una breve visione notturna, per riconoscere come sacro quel luogo; ora, la presenza di Dio in Maria era stata ed era immensamente più reale, più grande ed efficace.

Il libro dell’Esodo narrava che al monte Oreb un giorno Mosè vide ardere un roveto senza consumarsi. Mentre egli si avvicinava per vedere che cosa fosse, la voce del Signore lo chiamò e gli disse: «Non avvicinarti. Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è terra santa! » (Es 3,1-5). La santità del luogo esigeva una separazione. A nessun uomo era lecito toccare il luogo santificato da Dio. Santità significava separatezza, lontananza da ogni contaminazione.

E per altra parte, secondo la Legge ogni rapporto sessuale, anche il più legittimo, rendeva impuri gli sposi: «La donna e l’uomo che abbiano avuto un rapporto con emissione seminale si laveranno nell’acqua e saranno impuri fino a sera» (Lv 15,18).

Nei vangeli il tema della vita intima di Giuseppe e Maria rimane avvolto da un delicato riserbo. Ma fin dall’epoca dei grandi Padri della chiesa greca, Maria veniva invocata Aeiparthénos, cioè Semprevergine. La sua perpetua verginità rimase un dato importante nella visione di fede dell’intera cristianità. Nel secolo XVI venne difesa dagli stessi Riformatori Lutero e Calvino: anche se, purtroppo, abbandonata in seguito dalla gran parte del mondo protestante.

Nell’ambiente ebraico antico, per una donna, astenersi dai rapporti matrimoniali, anche per breve tempo, era inimmaginabile senza il pieno consenso del marito. Il quale aveva, in ogni caso, l’autorità di invalidarne anche i voti fatti a Dio. Dobbiamo essere profondamente grati a Giuseppe, dunque, se possiamo invocare la Madre di Dio con il titolo di Semprevergine. Dobbiamo essergli grati per aver voluto condividere con Maria una scelta di vita assolutamente unica al mondo, frutto dell’evento dell’Incarnazione. Ogni volta che noi benediciamo Dio per la verginità perpetua di Maria, noi lo benediciamo anche per la verginità perpetua di Giuseppe.

Sorta nel cuore dei due giovani sposi per un dono dello Spirito, la scelta di vita verginale comportò certo delle rinunce, comprensibili a tutti. Ma fece sgorgare in essi un amore di tenerezza assolutamente incomprensibile a chi vive privo di speranza, rinchiuso negli orizzonti di questo mondo. Fece sgorgare nel loro cuore un amore coraggioso e robusto, sempre giovane, tale da non temere né gli ostacoli, né la morte. Fece sgorgare una pace che proveniva dallo stesso Signore Dio, dimorante fra loro come figlio, ed era già un presentimento della gloria.

Quella scelta di vita li aperse ai raggi luminosi e caldi della indicibile Presenza divina. Li condusse per sentieri a noi ignoti ad una intimità con Dio, che rimase per loro il segreto più amato e più profondo. Davanti al loro dialogo con il Dio di santità, divenuto in tutto come noi e loro figlio, il credente rimane assorto in silenziosa ammirazione. Egli loda la grandezza dell’Onnipotente e Misericordioso, che concede il suo regno ai piccoli e ai poveri: «Cose che occhio non vide e orecchio non udì, né mai entrarono in cuore d’uomo, cose che Dio ha preparato per coloro che lo amano»(1 Cor 2,9).



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