Il buon Trapattoni, in uno dei suoi esilaranti sfoghi postpartita, se ne uscì con l’espressione “non dire gatto se non l’hai nel sacco”.
Già, non basta dirle le cose perché accadano. Nella fattispecie non basta parlare, ragionare, dissertare di comunità murialdina perché questa esista. Bisogna costruirla mattone dopo mattone, con pazienza e costanza, avendo ben chiaro ciò che si vuole e perché lo si vuole.
Il perché è presto detto ed è espresso in modo molto chiaro nella Regola dei Giuseppini (Dir. 40): “La ricchezza del carisma del Murialdo si manifesta in pienezza quando si concretizza nei diversi modi di vivere la vita cristiana e fa maturare una comunione di vocazioni”. È la comunione il valore da far emergere e testimoniare.
Più difficile risulta predeterminare “che cosa” si vuole e le risorse cui attingere per realizzarla, anche se a fondamento della costruzione deve esserci la volontà.
Volere la comunità murialdina, volerla con la dovuta energia e con un pizzico di idealità, fa intraprendere strade forse inesplorate, scoprire energie forse non adeguatamente mai valorizzate, aprirsi alla fiducia, senza lasciarci demolire dai primi insuccessi, o dalla fatica del dono reciproco.
Ritengo che la costruzione della comunità murialdina sia una sfida entusiasmante, anche se faticosa e magari con qualche insidia. Lo so: sono un po’ idealista, perdonate. Una sfida però cui bisogna metter mano e non liquidare ritenendola un sogno irrealizzabile o, peggio, qualcosa di deleterio ai fini di un apostolato veramente efficiente; un eccesso di promiscuità da guardare quanto meno con sospetto.
Lasciatemi concludere con una espressione che mi porto dentro da quando l’ho letta. “Ogni ostacolo, ogni muro di mattoni, è lì per un motivo preciso. Non è lì per escluderci da qualcosa, ma per offrirci la possibilità di dimostrare in che misura ci teniamo. I muri di mattoni sono lì per fermare le persone che non hanno abbastanza voglia di superarlo. Sono lì per fermare gli altri". (Randy Pausch, L’ultima lezione). E chi scriveva queste cose era un uomo cui era stato diagnosticato dai tre ai sei mesi di vita. A noi quanto tempo è dato? Val la pena forse provare.
p. Ferruccio Cavaggioni
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