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"Attualità" - Basta volergli bene.



Un giuseppino del Murialdo racconta la sua esperienza di cappellano nel carcere minorile.

“Lavoro da tre anni come cappellano del carcere minorile di Treviso e posso dire che, dopo anni in cui sono stato insegnante e poi educatore nelle case famiglia, questa esperienza ha arricchito moltissimo il mio essere sacerdote e quasi non riesco ad immaginarmi senza di essa”.

Chi ci racconta la sua vita di cappellano nel carcere minorile di Treviso è P. Giorgio Saccon, 68 anni, giuseppino del Murialdo, della comunità di Cal di Breda. Don Giorgio, è difficile accostare questi ragazzi, come fai?

Non è difficile accostarli… è difficile averli accostati! Mi spiego: un ragazzo che va in carcere si trova come perduto, ha bisogno di tutto e di tutti e, se uno gli si avvicina con l’intento di aiutarlo, non lo rifiuta proprio, anche se è un prete, al di là della sua fede o non fede; vedono in me un aiuto, una speranza, un punto di riferimento, un amico. Ciò che è difficile non è incontrarli o aver la loro confidenza, ma portare nel cuore il peso di tante vicende difficili, di tanti dolori, di ferite che promettono di non guarire, di storie che spesso non avranno redenzione.

Io incontro i ragazzi del carcere mentre sono in cortile, avvicino e saluto quelli che conosco, poi, se c’è uno nuovo, lo saluto dicendo “Questo non lo conosco” ma poi lo lascio stare… Dopo qualche giorno di solito è lui che, dopo aver avuto dagli altri informazioni su di me, mi avvicina, mi chiede di parlare, si confida, mi chiede aiuto, qualche volta si confessa.

Insomma sei per questi giovani “amico, fratello, padre” come diceva il Murialdo…

Mah… io dico una cosa molto più semplice: basta fargli capire che gli si vuol bene, che si è realmente interessati a loro. Quando al mattino arrivo nel carcere, nel cortile vedo subito se qualcuno ha qualche problema, sta in un angolo, ha la faccia particolarmente scura… allora mi avvicino e gli offro l’occasione di parlare: magari ha ricevuto una brutta notizia da casa, oppure il giorno successivo ha l’udienza decisiva per il suo futuro. Molti di questi ragazzi sono stranieri, non hanno nessuno che si occupi di loro, che gli porti un pacchetto di sigarette, o un capo di vestiario, se ne hanno bisogno. Ricevo dalla Caritas diocesana una somma di denaro attraverso la quale posso dare dei piccoli aiuti a chi non ha niente e nessuno. A volte sono davvero cose da poco, ma per loro sono tutto.

Per esempio?

Per esempio mi ricordo che un giorno un ragazzo stava per essere portato in tribunale per un udienza; era molto teso, voleva un pacchetto di sigarette e non ne aveva, non ne avevo neanche io, in quel momento. Gli ho chiesto: “Tra quanto tempo ti portano via?”. “Tra mezz’ora” mi risponde “Aspettami qui”. Sono uscito per comprargli un pacchetto di sigarette e portargliele. Mi ha guardato quasi con le lacrime agli occhi e mi ha detto: “Don, questo non lo dimenticherò mai!”.

Certo è un lavoro difficile…

Difficile sì, anche perché non si possono stabilire rapporti duraturi: i ragazzi vengono spesso trasferiti; con alcuni tengo contatti, riesco a fare qualcosa per loro, altri li perdo di vista o vengo a sapere che sono in un altro carcere. Poveri ragazzi, veramente i più poveri, poveri di umanità. Spesso, devo dirtelo, non cattivi. Io dico spesso che lì in carcere trovo di tutto dalla A alla Z (con dentro anche la O di omicidio) eppure solo in rari casi quei ragazzi mi sono apparsi realmente cattivi ed irrecuperabili.

Questo per un educatore è forse la sofferenza più grande.

Davvero. Sono ragazzi che hanno sbagliato e devono pagare gli errori che hanno fatto, ma anche devono esser aiutati a cambiare e in questo ci vorrebbe una maggiore sensibilità a livello sociale; invece, quando escono dal carcere, sono quasi sempre irrimediabilmente segnati dall’esperienza che hanno fatto, nessuno li vuole, nessuno si fida, nessuno li accompagna ad inserirsi in una vita normale e, purtroppo, spesso, sono quasi costretti a ritornare nei circuiti della delinquenza.

Allora quale speranza c’è nel tuo lavoro?

Io svolgo un lavoro non istituzionale, ma relazionale. Cerco di star loro vicino, intanto nel momento difficile della carcerazione. Una buona parola, una presenza amica lascia un segno buono nel cuore, comunque. Conosco per fortuna anche storie di reinserimento positivo nella società. Anche quando faccio proposte religiose incontro rispetto e accoglienza. Hanno un senso di Dio molto confuso: forse vorrebbero crederci, ma non ci riescono; hanno vergogna anche di sé stessi. Credo che siano davvero giovani poveri; i più poveri, poveri anche di umanità, tante volte.

Un aiuto importante nel lavoro me lo danno un gruppo di volontari che, oltre ad entrare qualche volta con me nel carcere, per esempio animando la messa domenicale, mi aiutano a stare vicino a questi ragazzi quando escono e affrontano la fatica del reinserimento nella società. Con questi volontari facciamo un cammino di formazione, che è … molto formativo anche per me!

Anche il Murialdo, del resto, a Torino, al suo tempo, si interessò dei ragazzi difficili di quella specie di carcere minorile che si chiamava “La Generala”…

Sì, e ci ha trasmesso questo impegno: “Poveri e abbandonati: ecco i nostri. Più sono poveri e abbandonati e più sono i nostri”.

A cura della Redazione

“Ci sedemmo dalla parte del torto perché gli altri posti erano occupati.” (B. Brecht)

“Occorre usare modi affabili con tutti, fare in modo che, quando i giovani vengono a trovarci, se ne vadano sempre contenti… Non disanimarsi quando si trova poca corrispondenza nei nostri giovani. Accostarli, vincendo la loro selvatichezza ed ispirando loro confidenza.” (L. Murialdo)




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