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"Giovani a Lavoro" - Ne hanno il diritto


Per questo numero la redazione mi ha chiesto di scrivere una panoramica generale sul tema «lavoro e giovani» nella difficile congiuntura di crisi economica e sociale che stiamo attraversando. Ci ho pensato a lungo, anche perché ogni settimana nel giornale in cui mi onoro di lavorare quasi da 25 anni, «La Voce del Popolo», (il settimanale della diocesi di Torino che annovera tra i suoi fondatori san Leonardo Murialdo), tra miei impegni c’è quello di pensare ad una pagina dedicata appunto al lavoro che c’è e soprattutto che non c’è. Ci ho pensato a lungo in questi giorni in cui qui a Torino la Chiesa diocesana si preparava alla festa del Primo Maggio, ricordando san Giuseppe lavoratore, in una città dove la crisi economica sta alzando il livello di guardia della tensione sociale, dove si convive con la spada di Damocle della Fiat (rimane in Italia? Si trasferisce negli Usa?), dove non passa settimana che un’azienda dell’indotto auto non chiuda i battenti o annunci la cassa integrazione straordinaria. Dove tante piccole imprese, negozi, uffici, cantieri, cooperative falliscono senza sosta, dove non si assume più se non a tempo determinato o più spesso per qualche settimana o con contratti a progetto.

Alla fine ho deciso che non avrei scritto dei 2 milioni di giovani che secondo l’Istat non cercano più lavoro, degli imprenditori che si suicidano o dei padri di famiglia disperati che si incatenano davanti alle fabbriche che li considerano ormai solo esuberi. Di queste storie sono pieni i quotidiani e i telegiornali.

Contravvenendo per una volta (poichè considero Vita Giuseppina una grande famiglia) ad una regola basilare del giornalismo e cioè che il cronista non deve parlare mai in prima persona ma è solo il tramite fra la realtà e i suoi lettori, alla fine ho deciso accennare alla mia esperienza personale.

Appartengo a quella fascia di 40-50 enni che teme il futuro non tanto per sé ma per i propri figli perché, l’attuale crisi li costringerà - oltre ad inventarsi un lavoro (quale?) anche a mantenere noi genitori che non riusciremo a raggiungere la pensione perché stiamo perdendo ora il nostro posto di lavoro. Sono numerosi i miei coetanei che dopo 20-25 anni di anzianità hanno ricevuto l’invito ad accettare le dimissioni incentivate perché considerati in esubero (nonostante non aver mai chiesto un permesso per malattia e dedicandosi al lavoro senza risparmiarsi), che non ricevono lo stipendio da mesi o che temono di essere licenziati. Il problema è che a 40-45 anni i figli sono ancora piccoli e spesso c’è un mutuo da pagare e i genitori anziani da assistere…

Ciò che ci amareggia di più è che io e altri della mia età, questo film l’hanno già vissuto quando erano adolescenti e, francamente, per i nostri figli avremmo voluto un futuro diverso, senza l’angoscia di avere dei genitori disoccupati. Avevo 16 anni negli anni ‘80 quando mio padre a 55 anni, dopo 35 anni di anzianità (anche lui senza mai perdere un giorno di lavoro, neppure quando andava a donare il sangue…) è stato messo fuori perchè l’azienda dove era impiegato è fallita. Erano le prime crisi delle imprese padronali solo che allora non c’erano ancora gli ammortizzatori sociali e così da un giorno all’altro la mia famiglia è rimasta senza l’unico stipendio. Per fortuna mio padre aveva 35 anni di anzianità, così dopo due anni la pensione è arrivata… ma la liquidazione no perché ai tempi non c’era tutela sul fondo tfr delle aziende fallite: siamo stati un caso pilota, che privilegio…

Ma come vivere in attesa della pensione, con un affitto da pagare e tutto il resto? Ricordo quel periodo con molta angoscia, non solo per le ristrettezze economiche ma soprattutto per la prostrazione e l’avvilimento di mio padre. Un senso di insicurezza e precarietà che non mi è mai passato: del resto, cosa può pensare un’adolescente quando vede il proprio padre piangere perché ha ricevuto al telefono la notizia che il suo capo si è suicidato perché, oltre a perdere il suo lavoro, prima ha dovuto licenziare i suoi sottoposti?

Ho voluto riportare questo esempio personale – e i lettori mi scuseranno - per sottolineare quanto il problema della mancanza del lavoro - per i giovani innanzitutto, perché senza di esso non possono fare alcun progetto per la propria vita – sia un’emergenza sociale che, accanto a quella educativa come sottolineano da tempo i nostri Vescovi, deve essere affrontata con determinazione pena la sopravvivenza stessa della nostra società.

Quale il compito della Chiesa in questo contesto di sfiducia e disillusione generalizzato che spinge addirittura migliaia di giovani a non cercare neppure più lavoro? Innanzi tutto, come più volte ha sottolineato il card. Carlo Maria Martini in occasione del Grande Giubileo del 2000, il ruolo della Chiesa in questo terzo millennio di rivolgimenti epocali e di cambiamenti degli equilibri del nostro pianeta è quello «della consolazione», della compassione, della vicinanza, della prossimità. Per ritornare ad un esempio personale, mio padre in un momento difficile della sua vita, dove la perdita del lavoro lo faceva sentite inutile ha trovato nella comunità parrocchiale (Nostra Signora della Salute) e nei padri giuseppini un punto di riferimento per ritrovare fiducia in se stesso: il coinvolgimento nelle attività parrocchiali e nella San Vincenzo accanto a persone in situazioni di bisogno molto più gravose di quella che stava vivendo lo hanno risollevato e rimotivato. E questo ha fatto bene a tutta la famiglia.

Poi, c’è il dovere, come Chiesa, di essere uomini e donne di speranza anche in un momento dove è difficile intravvedere il fondo del tunnel. Ci fanno da guida i santi sociali che, in un periodo di grandi rivolgimenti che ha tante similitudini con il nostro tempo, non si sono mai persi d’animo e hanno inventato nuovi percorsi per dare speranza. Scriveva il Murialdo: «Tanti dicono di amare i poveri, gli operai, il popolo. Ma che fanno, che soffrono per questi? Gesù Cristo lavorò, soffrì, li amò d Dio. Dall’amore di Dio e del prossimo dobbiamo trovare i motivi e la forza della nostra azione: senza la carità di Cristo, non vi può essere vero amore al povero, agli umili, al popolo, alla società» (Manoscritti, 30). E ancora: «non dobbiamo essere troppo facili a stancarci, a disanimarci, a disperare» (Scritti, V). Come credenti, come educatori e come genitori e lo dobbiamo ai nostri giovani e ai nostri figli in un momento davvero buio: ne hanno il diritto.

Marina Lomunno

 


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